Il libro di Vincenza, posiamo definirlo un felice incastro tra dinamiche individuali e contesti socio economici complicati, del vecchio continente nel nostro tempo, che affondano in lontane radici e dinamiche geopolitiche e culturali della vecchia Europa.
Esso affronta a mio modo di vedere un errore frequente.
L’illusione che l’amore implichi necessariamente l’assenza del conflitto. Così come è opinione comune che il dolore e la tristezza dovrebbero essere evitati in tutte le circostanze, la gente spesso crede che l’amore significhi l’assenza di ogni conflitto; trova ottime ragioni per sostenere questa teoria nel fatto che la lotta che li circonda sembra loro solo uno scambio distruttivo che non porta niente di buono alle persone coinvolte. Ma le ragioni di ciò stanno nel fatto che i conflitti, nella maggior parte della persone, sono in realtà tentativi per evitare veri conflitti.
O sono disaccordi riguardo questioni secondarie e superficiali, che per loro stessa natura non si prestano a chiarificazioni e a soluzioni, o sono questioni profonde che riguardano concezioni di vita, il suo divenire le dinamiche di crescita o arretramento culturale, lo sviluppo spesso complicato della propria personalità, nei contesti di vita o di lavoro.
Ma i veri conflitti tra le persone nel libro di Vincenza non sono mai distruttivi.
Portano alla chiarificazione, producono una catarsi dalla quale entrambi i soggetti emergono con maggiore esperienza e maggiore forza.
L’amore è possibile solo se due persone comunicano tra loro dal profondo del loro essere, vale a dire se ognuna delle due sente se stessa dal centro del proprio essere.
Solo in questa esperienza profonda è la realtà umana, solo là è la vita, solo là è la base per l’amore. L’amore, sentito così, è una sfida continua; non è un punto fermo, ma un insieme vivo, movimentato; anche se c’è armonia o conflitto, gioia o tristezza, è d’importanza secondaria dinanzi alla realtà fondamentale che due persone sentono se stesse nell’essenza della loro esistenza, che sono un unico essere essendo un uno unico con se stesse anziché sfuggire se stesse.
C’è solo una prova che dimostri la presenza dell’amore: la profondità dei rapporti, e la vitalità e la forza in ognuno dei soggetti.
Tutto ciò attraversa i personaggi del romanzo Silvia, Giovanna, Roberto, Augusto ed altri che incontriamo in tutta la narrazione.
Il vero nocciolo della questione consiste piuttosto nella scoperta che le relazioni più felici sono quelle in cui tra i partner si è sviluppata una profonda ed intima amicizia ed un rispetto per le proprie diversità. La profonda conoscenza tra due persone e la capacità di esprimere l’amore attraverso piccoli gesti quotidiani sembrano essere i fattori fondamentali di un rapporto che può funzionare a lungo e che può procurare soddisfazione ad entrambi i membri di una coppia. Coltivare il rapporto sulla base di questi semplici elementi permette di ottenere un guadagno molto grande sul piano della felicità di una coppia.
È bello innamorarsi e trovarsi, ma alcune volte può capitare di perdersi, di smarrirsi, di affondare nei marosi della vita, nell’assenza di rispetto, nell’arcaicità dei palesi o occulti assi portanti del patriarcato, di cui il più velenoso è il possesso, la sopraffazione dell’altro fino all’estremo, come nel caso dei femminicidi. E cosa accade quando o da soli o in due o una moltitudine attraversa i contesti socio economici del ns. tempo? I conflitti e le tensioni nei passaggi geopolitici tra libertà e autoritarismi, tra populismi e nazionalismi etnici, tra migrazioni e residenzialità egocentrica e individualista, tra muri e filo spinato, tra religioni e pretese egemoniche o peggio imperialiste?Quante guerre ci sono state e ci sono nel mondo, oggi nel 2024 e quali rischiano di degenerare in insopportabili catastrofi umanitarie?
Aumentano le guerre senza pace. A causa dell’immobilismo della politica internazionale, c’è il rischio che alcuni conflitti degenerino nel 2024.
Il libro di Vincenza che pure riflette partendo da un viaggio individuale, da incontri tra amici, scelti o casuali a partire dalle meravigliose sponde del lago Balaton, attraversa l’Ungheria, giunge in Bosnia attraversa Croazia, insomma mittle Europa e vecchia Iuguslavia ci fa ripiombare in quella che fu la sanguinosa ed intollerabile guerra in Bosnia-Erzegovina, il 6 aprile 1992, che sarebbe durata 3 anni e mezzo.
Il più lungo assedio della storia moderna ad una città, la capitale Sarajevo, posto dai serbo-bosniaci che non volevano l’indipendenza da Belgrado, con più di 11 mila morti, 2000 dei quali bambini.
In tutto il Paese più di 100 mila vittime. L’analisi e le similitudini con la guerra in Ucraina, fa rabbrividire.
È stato l’assedio più lungo della storia moderna, più di quello di Stalingrado durante la seconda guerra mondiale, ad una città fisicamente vulnerabile, indifendibile dagli attacchi.
Sarajevo è a 700 metri di altezza, ma circondata da montagne che superano i duemila metri e digradano in dolci colline.
Sarajo, che in ottomano significa “gineceo”, e nell’idea dei fondatori, doveva essere un “giardino delle spose”, non certo una città fortificata. E da un mese prima di quel 6 aprile 1992 che segnò l’inizio della guerra in Bosnia-Erzegovina e dell’assedio, sulle alture intorno alla capitale, erano appostati cannoni, mortai, katiuscia, kalashnikov, mitra e cecchini della Jna, l’Armata Nazionale Jugoslava diventata ormai strumento della Serbia per cercare di impedire il disfacimento della Federazione controllata da Belgrado..
Il parlamento di Sarajevo aveva proclamato l’ indipendenza della Bosnia-Erzegovina, dopo quello di Slovenia e Croazia, dopo un referendum accettato però solo dai musulmani (allora il 43,7 per cento della popolazione) e dai croati (il 17) ma non dai serbi (il 31,3).
Tra gli alberi e i palazzi della collina, da dove erano partiti i colpi, lasciarono a terra, sei morti e una ventina di feriti, i primi giorni.
Ma ancora in tanti non credevano alla guerra, quella calda mattina soleggiata del 6 aprile, quando sulla spianata del Parlamento duecentomila persone, arrivate da tutto il Paese, scandivano slogan contro il nazionalismo, studenti ma anche minatori e operai degli altoforni.
I dimostranti avevano occupato l’emiciclo, tra loro anche Mustafa Cengic, già ministro dell’Informazione del governo di Belgrado, ormai dominato dai serbi, che il presidente Milosevic pretendeva che denunciasse come “crimini musulmani” contro “serbi innocenti”. Dall’Holiday Inn, i colpi dei cecchini sulla folla.
A mezzogiorno, dalle finestre del quinto piano dell’Holiday Inn, che poi sarebbe diventato la base operativa dei giornalisti di tutto il mondo durante l’assedio, cecchini serbi spararono sulla folla che applaudiva il riconoscimento dell’indipendenza da parte della Comunità Europea, prima nel mucchio e poi mirando alla testa. Iniziò una guerra che sarebbe durata più di 3 anni e mezzo. Trent’anni fa l’indipendenza di Slovenia e Croazia e l’inizio della guerra nei Balcani
Più di mille giorni di assedio, più di 11 mila vittime
La guerra si sarebbe chiusa solo il 21 novembre 1995, con la firma della pace di Dayton. In mezzo, solo a Sarajevo, più di 11.500 morti tra i quali 2 mila bambini, e 52 mila feriti, tra i circa 280 mila abitanti rimasti, spesso, senza acqua, luce e gas. In tutta la Bosnia ed Erzegovina, si conteranno più di 100 mila morti, quasi un milione di sfollati interni e un milione di profughi all’estero, per un Paese che nel 1991 aveva 4 milioni e 350 mila abitanti. Il più grande conflitto in Europa dalla seconda guerra mondiale mobilitò la comunità internazionale, l’Onu e le sue agenzie umanitarie, la solidarietà di tutto il mondo (tante le campagne e le
“missioni” anche di privati dall’Italia), ma non si fermò, se non dopo l’orrore della seconda strage di civili al mercato di Markale, nell’agosto del 1995. Vivere l’assedio nella lunga e stretta valle di Sarajevo, significò giocarsi alla roulette russa ogni secondo dell’esistenza, giorno e notte, Chi poteva si metteva in salvo, con il senso di colpa di chi partiva, e il rancore di chi era costretto a restare.
A dirlo è l’International Crisis Group, una Ong che lavora per prevenire e risolvere conflitti mortali, che dal 2011 ha registrato un aumento significativo dei conflitti. Guerre senza pace che vedono coinvolti oltre 400 milioni di bambini, come segnalato dall’Unicef. Tra il 2005 e il 2022 – secondo l’ente delle Nazioni Unite – almeno 120.000 bambini sono rimasti uccisi o mutilati a causa delle guerre.
E mentre i civili muoiono sotto i bombardamenti, la politica internazionale non riesce a trovare una vera risoluzione. Tragico esempio è il genocidio che si sta consumando nella Striscia di Gaza, sotto gli occhi di un Occidente bloccato nel suo immobilismo politico.
Ma le tragedie non hanno segnato solo Gaza, i conflitti che rischiano di degenerare nel 2024 sono numerosi e si trovano concentrati tutti tra il Medio Oriente e l’Africa. Dal 2011 sono numerosi i conflitti esplosi in tutto il mondo e alcuni di questi sono tutt’ora in corso, dilaniando paesi e uccidendo civili. La differenza, rispetto ai conflitti degli anni ’90 come quelli in Cambogia, in Bosnia, in Mozambico e in Liberia, è che si erano raggiunti una serie di accordi per il cessate il fuoco, e benché fossero accordi incompleti, questi rappresentavano dei passi verso la pace, mentre negli ultimi dieci anni non si sono mai siglati patti tra le parti in guerra. Vediamo insieme quante guerre sono tutt’ora in corso nel 2024.
- Libia, Yemen e Siria. Le guerre in questi tre Paesi sono formalmente finite, ma de facto non si è mai giunti a una pace duratura e definitiva, poiché le fazioni in guerra non hanno mai raggiunto un accordo. E l’instabilità della Libia si è poi estesa verso Sud, causando una serie di prolungate ostilità nel Sahel.
- Azerbaigian e Armenia. Nel 2020 è esploso il conflitto per l’enclave del Nagorno-Karabakh. Un conflitto che non si è ancora risolto dato che nel 2023 l’Azerbaigian ha ripreso il controllo del Nagorno-Karabakh e ha spinto molti armeni a fuggire, mettendo fine a una situazione di stallo durata trent’anni.
- Etiopia. Altro tragico conflitto è quello che si è consumato in questo stato africano, in particolare nella regione settentrionale del Tigray. Benché nel 2022 il primo ministro etiope, Abiy Ahmed, abbia raggiunto un accordo per il cessate il fuoco con i ribelli del Tigray a novembre 2022, questo rappresenta più che altro un consolidamento del potere di Abiy, ma le tensioni non sono mai cessate del tutto ed è possibile che esplodano di nuovo.
- Afghanistan. Dopo la ritirata delle truppe statunitensi nell’agosto del 2021, i talebani hanno preso il potere senza particolari accordi. Dopo decenni di guerra il Paese è tornato sotto un regime repressivo con gravi conseguenze per i civili.
- Russia e Ucraina. Altro conflitto tutt’ora in corso è quello tra Mosca e Kiev, che sta perdendo il sostegno occidentale a causa delle altre guerre, soprattutto quella in Palestina, lasciando spazio di manovra alla Russia.
- Sudan. Una guerra che sta dilaniando un Paese. Il conflitto in corso, cominciato dalla Capitale Khartoum e ben presto allargatosi al resto del Paese, è il risultato di una serie di tensioni latenti da anni, alimentate da Nazioni straniere che hanno interessi economici nel cuore del Corno d’Africa come Stati Uniti e Russia.
- Palestina e Israele. Un conflitto centenario che ora, dal 7 ottobre, dopo anni in cui il popolo palestinese è stato oppresso, si è trasformato in un vero genocidio. Gaza è ormai rasa al suolo e ciò potrebbero cancellare la speranza di pace per un’intera generazione.
2024, quali conflitti rischiano di degenerare?
Sono numerosi i conflitti che hanno segnato il 2023 ma che rischiano presto di andare in contro a una degenerazione nel 2024, in quanto su alcuni campi di battaglia, gli sforzi per raggiungere la pace sono totalmente assenti.
Basti pensare al Sudan, al calo del sostegno occidentale a Kiev per via di altri conflitti, Mosca cerca di costringere Kiev alla resa, un risultato inaccettabile per gli ucraini.
Da non sottovalutare poi la situazione in Etiopia, dove gli esperti temono che Abiy tenti di ottenere uno sbocco sul mare attaccando l’Eritrea fino al Mar Rosso. Infine il conflitto in Palestina rischia di espandersi in tutto il Medio Oriente, come già sta accadendo con gli Houthi dello Yemen che stanno bloccando il Mar Rosso, o l’Iran che ha colpito il Pakistan, mentre Israele e Stati Uniti minacciano di intervenire. Il tutto mentre migliaia di civili e bambini muoiono sotto le bombe. In tutti i casi citati la pace non è negoziabile con un accordo, e nonostante gli sforzi diplomatici per gli aiuti umanitari sia notevole, la politica internazionale è totalmente assente, consentendo quotidiane stragi di civili.
Queste crisi internazionali, ricordano gli analisti dell’International Crisis Group, dipendono spesso dall’immobilismo della politica globale. “I vincoli all’uso della forza, per esempio, si stanno sgretolando” – scrive Repubblica.
E se gli sforzi diplomatici in alcuni casi hanno portato al riavvicinamento di alcune potenze come tra l’Iran e l’Arabia Saudita, o tra Stati Uniti e Cina, questi non hanno portato a risoluzioni dei conflitti.
Anche nelle crisi in cui non sono direttamente coinvolte, le grandi potenze si concentrano sulla diplomazia, rapporti con gli stati in guerra e interessi economici, piuttosto che impegnarsi a trovare soluzioni di pace. Altrimenti non si spiegherebbe il perché Stati Uniti e altri paesi abbiano votato contro il cessate il fuoco in Palestina, consentendo de facto il proseguimento di un genocidio.
Insomma questa panoramica che ho volutamente accostato alle pagine emozionanti che Vincenza scrive a proposito delle guerre bosniache e alle conseguenti ed appassionate ricette che tenta di mettere in campo per farci riflettere sull’andamento, dell’economia nella globalizzazione, su cosa significa ricercare davvero solidarietà e non smarrire l’umanità per dare significanza all’esistenza umana, per comprendere che i venti di guerra si stanno riaffaciando impetuosi, ci portano a collocarla dentro quel suo autentico senso di appartenenza alla comunità religiosa di cui è teologa e studiosa che le consente di esplorare, dai rapporti umani di coppia fino al genere umano nel mondo, se non sia il caso di rifondare un nuovo umanesimo che dalla tradizione cristiana trae ispirazione e si spinge alle nuove frontiere di una nuova economia francescana, alla teoria delle opportunità e della socializzazione dei mezzi finanziari di Amartya Sen e di Yunus, con il suo microcredito e la cooperazione nel lavoro moderno senza la spregiudicatezza del danaro come Dio Imperante e le banche, le borse, i bit Coin come volano di una nuova economia speculativa.
Non è certamente un caso che due tra i maggiori studiosi della povertà, Muhammad Yunus (premio Nobel per la pace) e Amartya Sen (premio Nobel per l’economia) sono originari rispettivamente del Bangladesh e dell’India, ed entrambi vengono da esperienze di contatto con le povertà vere e si sono sporcati le mani per contribuire a far nascere istituzioni e progetti per alleviare le povertà (la Grameen Bank e l’Indice di Sviluppo Umano delle Nazioni Unite).
Per capire e operare nelle povertà il buon senso non basta e spesso produce molti danni. La prima cosa che si inizia a capire quando si lasciano la scrivania e i set televisivi e si entra nella concretezza delle povertà, è l’inadeguatezza di una delle idee più radicate della sociologia del XX secolo, la cosiddetta ‘piramide di Maslow’, che è troppo astratta per essere vera. Pensare, infatti, che le persone abbiano bisogni ordinati da una gerarchia piramidale, dove alla base ci sono i bisogni fisiologici (fame, sete, caldo e freddo…) e solo una volta soddisfatti questi possiamo permetterci il lusso di passare ai bisogni di ordine superiore (sicurezza e protezione), poi a quelli di appartenenza quindi ai bisogni di stima. E, infine, una volta saziati, riscaldati e stimati possiamo finalmente dedicarci al lusso dei bisogni di auto-realizzazione, che occupano il vertice della piramide. Come se le persone non morissero anche per mancanza di stima e di senso, o se l’attesa di una nipote che viene a visitarci ogni sera in ospedale ci nutrisse meno della minestrina. Questa antica teoria (del 1954) ha subito molte critiche, sviluppi, rettifiche, ma l’idea che ci siano bisogni primari ed essenziali legati al corpo, al coprirsi, al tetto, e solo dopo tutti gli altri più ‘alti’, è ancora molto radicata nelle politiche pubbliche e nella cultura media della popolazione. E così la ritroviamo, implicita, anche nel dibattito sul reddito di cittadinanza di in Italia (e non solo). La teoria della povertà di Amartya Sen si basa su un assioma fondamentale, una sorta di pietra angolare del suo edificio scientifico: la povertà è l’impossibilità che ha una persona di poter svolgere la vita che amerebbe vivere. La povertà è dunque una carestia di libertà effettiva, perché la mancanza di quelle che lui chiama capabilities (capacità di fare e di essere) diventa un ostacolo spesso insuperabile per fare la vita che vorremmo fare.
E una delle capacità fondamentali consiste, per Sen, nel poter uscire in pubblico senza vergognarsi (di sé e dei giocattoli dei propri bambini). Una delle idee economico- sociali più rivoluzionarie e umanistiche dell’ultimo secolo.
Il primo messaggio, serio e preoccupante, di questa visione competente della povertà riguarda la difficoltà di aumentare le libertà con il denaro. Alcuni, in genere la maggior parte, di questi ostacoli sono infatti conseguenza della mancanza non di reddito, ma di capabilities, che sono una sorta di bene capitale (stock), una assenza che si è creata negli anni, spesso già dall’infanzia. È l’assenza di capitali che genera anche la mancanza di reddito, che è solo un effetto. Questi beni capitali sono istruzione, salute, famiglia, comunità, talenti lavorativi, reti sociali, che per essere ‘curati’ richiederebbero interventi strutturali, in ‘conto capitale’, e quindi molto tempo, volontà politica e un coinvolgimento serio della società civile. Se quindi le persone non useranno il reddito che giungerà dal Governo per rafforzare o creare alcuni di questi capitali, quei soldi non ridurranno la povertà, perché le persone resteranno povere con un po’ di consumi in più. E il primo bene capitale da cui una persona può ricominciare si chiama ancora con un antico, bellissimo, nome: lavoro. Ma c’è anche un secondo messaggio. Se questi 780 euro (al massimo) non diventeranno anche una maggiore libertà di comprare libri, giornali, di fare festa, un viaggio, di comprare un giocattolo bello per un bambino, un braccialetto più carino per la fidanzata, una cena esagerata con gli amici più cari per dire che finalmente stiamo cambiando vita, e che abbiamo ricominciato a sperare…, quei redditi non ridurranno nessuna povertà, o ne ridurranno gli aspetti meno importanti.
Tutti sappiamo, o dovremmo sapere, che per la stessa natura ‘capitale’ di molte forme di povertà, il rischio che i soldi del reddito di cittadinanza finiscano in luoghi sbagliati è molto alto; e per questa ragione dobbiamo fare di tutto per eliminare e ridurre alcuni di questi luoghi sbagliati (in primis il gioco d’azzardo, dove il governo deve andare fino in fondo togliendo le slot machine dai bar e tabacchi, e riducendo drasticamente i gratta-e-vinci che ormai si trovano ovunque). Ma se è vero che la povertà è mancanza di libertà, allora non offendiamo la libertà con liste di ‘beni primari’ scritte a tavolino, o con controllori che dovrebbero dirci se un libro o un giocattolo sono troppo costosi perché un ‘povero’ se li possa permettere. Il primo ‘reddito’ di cui i molti poveri del nostro Paese hanno bisogno è un segnale di fiducia e di dignità. Di sentirsi dire che sono poveri ma prima sono persone adulte, e possono decidere, anche loro, se è più primario un vestito o un regalo per chi amano. Insomma Vincenza con Se è amore.il conflitto ci porta per mano a riflettere e pensare che un ALTRO MONDO E’ POSSIBILE, lei forse più di me, ne è convinta perché dalla sua ha una forza in più che l’accompagna oltre la ragione: LA FEDE
Prof. Grazia Labate Presidente Associazione 7+1 Ottavo colle Aps